lunedì 2 ottobre 2023

ASCOLTIAMO DON DOLINDO

Don Dolindo Ruopolo
Anche noi siamo il popolo di Dio, anzi, noi siamo il vero popolo del Signore di cui gli Ebrei erano solo una figura. Noi fummo redenti dal Sangue Preziosissimo di Gesù Cristo, e fummo liberati dalla schiavitù del peccato con i mirabili prodigi della redenzione. Noi, dunque, dobbiamo veramente distinguerci da tutti i popoli per la nostra fedeltà al Signore. È tanto bella e consolante quella parola: Per figli vi tiene il Signore vostro Dio. Essa si applica molto più a noi che per la redenzione siamo stati veramente adottati come figli di Dio; ora un figlio non può essere degenere dal padre e non può riguardarlo come estraneo: se siamo figli di Dio, noi dobbiamo amarlo con tutto il cuore e con tutta la nostra anima, riguardandoci come pellegrini sulla terra, sospirando alla patria celeste, dove più che mai Dio ci è Padre. Dobbiamo dimostrare a Lui tutta la nostra filiale sottomissione soprattutto nella morte delle persone care. San Paolo dice chiaramente che si contristano disordinatamente nella morte quelli che non hanno speranza alcuna nella vita futura e quindi in Dio. Dunque, la calma e la rassegnazione nella morte dei nostri cari è un indice della nostra fede, e una dimostrazione pratica della nostra filiale sottomissione al Signore.

Quale spettacolo desolante offrono tanti cristiani nel momento del lutto! Il popolo crede di passare per disamorato e di fare una brutta figura innanzi agli altri se non dà in atti di disperazione, e tante volte impreca al Signore, bestemmiando nella maniera più truce. In certi paesi è di rito lo strapparsi i capelli con tale violenza da spargerli sul pavimento. In certe case, appena spirata la persona cara, si protesta di non avere più fede, e si rivolgono ingiurie alle immagini sacre, profanandole; altro che radersi le sopracciglia o tatuare il proprio corpo! Il cristiano, invece, comprende che la persona cara è passata all’eternità, a Dio. È il momento più solenne quello della morte nel quale bisogna raccogliersi nella meditazione della vita eterna, e bisogna pregare, pur sentendo la veemenza naturale del dolore. La casa veramente cristiana risuona di preghiere e di atti di rassegnazione alla divina volontà; chi ci visita in quella luttuosa circostanza deve riconoscerci per cristiani e deve, dal nostro lutto, riportare un salutare ammonimento sulla realtà della vita eterna. Noi dobbiamo allora dimostrare di essere figli di Dio, e non possiamo quindi sfigurarci come pagani nel nostro dolore.
Del resto, anche umanamente parlando, gli atti esterni troppo caricati non sono segno di un vero e profondo dolore, perché il vero dolore è muto; sono il più delle volte delle manifestazioni forzate, suggerite dal rispetto umano che svaniscono appena il povero morto è disceso nella tomba. È la triste storia di tutti i giorni, e lo sanno i poveri trapassati ai quali molte volte non giunge dalla propria famiglia neppure un solo suffragio. Tutti quegli atti di sconforto e di disperazione anzi, tutte quelle offese fatte alla maestà divina che chiama le anime a sé per misericordia e per amore, riescono estremamente penose al defunto. Questi, appena spirata l’anima, si trova alla presenza Dio e ne apprezza la bontà e la maestà; in quella mirabile rivelazione non c’è cosa che più stoni quanto la disperazione dei superstiti, come non c’è cosa che più sollevi il defunto veramente quanto gli atti di lode e di benedizione che si fanno a Dio nella medesima pena della morte.
Se amiamo veramente i nostri cari, inginocchiamoci piangendo, uniamoci alla divina volontà, benediciamo Dio, accompagniamo l’anima al suo trono con la preghiera, ricordiamoci che la terra è un luogo di passaggio, togliamo dalla nostra vita il peccato, riconciliamoci con il Signore, distacchiamoci dalle vanità, guardiamo alla realtà della vita e sospiriamo anche noi al Cielo. Questo è il modo più bello e più sincero per piangere un defunto, riponendolo così nella tomba fra le benedizioni, nell’attesa della resurrezione finale. Qualunque altro modo di mostrare il proprio dolore è un atto di apostasia da Dio e dalla fede.
Il cristiano deve distinguersi per una grande purezza e per una grande onestà di costumi. Gli Ebrei si astenevano dai cibi immondi, noi ci asteniamo dagli atti immondi dei quali quei cibi erano figura. In mezzo all’orribile corruzione del mondo, dobbiamo dimostrare che siamo di Dio, fuggendo il male e le occasioni del male. Dobbiamo dare al Signore tutta la nostra vita, offrendo a Lui e per la sua gloria le nostre attività e i nostri beni, riguardandolo come Padrone universale di tutto, onorandolo nei poverelli, negli afflitti e nei suoi ministri. Dio deve essere il fine di tutta la nostra vita, per Lui dobbiamo lavorare, a Lui dobbiamo rivolgere ogni nostro amore. Solo così saremo veramente il suo popolo, ed Egli ci benedirà in tutte le nostre iniziative. Ricordiamoci di dare a Dio le decime, almeno le decime, in ogni evento della nostra vita. In un divertimento onesto non deve mancare la decima a Dio, ricordandoci di Lui e ringraziandolo. In un pranzo non deve mancare la decima a Dio, facendo per suo amore un atto di mortificazione privandoci di un boccone che più ci piace, piccolo contributo di riconoscenza e di amore a Lui. Se il cibo della nostra vita è immondo, come possiamo darne a Dio la decima? In un ballo, per esempio, in un teatro, in una casa cattiva, in una conversazione peccaminosa, come puoi dare la decima a Dio? Bisogna eliminare dalla nostra vita quello che è indegno del Signore, senza farci affascinare dal male. Come Mosè ricordava continuamente agli Ebrei la loro liberazione dall’Egitto, così noi dobbiamo ricordarci continuamente che siamo stati redenti dal Sangue di Gesù Cristo, e che non possiamo profanare la vita che Egli ci ha data, partecipando alla vita del mondo che è impurità, peccato e apostasia da Dio.

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